Milano 17.07.2014 – I lavoratori e tecnici del Teatro Alla Scala di Milano, aderenti al sindacato di Base CUB hanno raggiunto la sede del PD per chiedere un incontro in merito al Decreto “Art Bonus e Turismo” che il Governo Renzi ha posto in discussione in Senato e che precede al titolo C, la possibilità di un aumento dei finanziamenti alle Fondazioni Lirico-Sinfoniche a patto che vi sia una riduzione del personale.
Ciò si desume facilmente dalle voci del Decreto che prevedono la gestione di “personale in esubero” tramite l’esonero dal servizio con il 50% della retribuzione per coloro che possono accedere alla pensione in deroga alla Riforma “Fornero”, e di altro “personale eccedente” attraverso la assunzione presso la “Ales S.p.A.”, e di altro ancora in altre forme.
Insomma, pare chiaro che, oltre alla volontà di stabilire un tetto ai compensi della dirigenza, si intenda coprire le mancanze finanziare e gestionali tagliando i lavoratori e tecnici delle fondazioni.
Un Paese che ha visto dimezzata la sua capacità produttiva in pochi anni e che perde ogni giorno parte del suo tessuto industriale, dovrebbe considerare il suo grande patrimonio culturale, come i teatri e le sue fondazioni lirico-sinfoniche, oggetto di rilancio economico. Basterebbe guardare i dati sul turismo della Francia, della Spagna o della Germania, che ci superano per numeri, offerta e organizzazione.
I lavoratori del Teatro Alla Scala hanno chiesto un intervento del PD e hanno ottenuto dichiarazione di intenti da parte dei funzionari del PD che al momento, però, non li rassicura sul proseguo del decreto alle camere.
https://www.youtube.com/watch?v=8Ts_rLPo5-8&feature=youtu.be
Job Act. Dal diritto del lavoro al lavoro senza diritti – di Giovanni Giovannelli
Pubblicato il 22 luglio 2014 da cri
Sembra che ci sia una poca attenzione, forse dovuta a una scarsa consapevolezza, riguardo i possibili effetti della politica sul lavoro del governo “nazionalsocialista” di Renzi. Non ci si rende conto pienamente della gravità della riforma Poletti, che, liberalizzando il contratto a tempo determinato e l’apprendistato, ha di fatto istituzionalizzato la condizione precaria come condizione lavorativa generalizzata.
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Con legge 16 maggio 2014 n. 78 è stato convertito il decreto legge n. 34, del 20 marzo precedente; le Camere hanno approvato, come ormai è consueto, mediante voto di fiducia, dunque senza dibattito. Da quel momento il contratto a termine è stato totalmente liberalizzato, la forma precaria del rapporto lavorativo è divenuta istituzionale, non è più necessaria alcuna giustificazione per l’opzione del contratto a scadenza in alternativa al contratto stabile. Sono trascorsi, da allora, ormai quattro mesi, senza reazioni significative da parte delle organizzazioni sindacali (anche di base); sembra prevalere una sorta di rassegnazione impotente e soprattutto non si riscontrano elementi di riflessione sulle cause di questa grave sconfitta, con un atteggiamento generale di cocciuta rimozione del problema, senza la capacità di cogliere per tempo (ovvero in anticipo) i passaggi che caratterizzano il progetto governativo.
Stefano Feltri (Il Fatto quotidiano, 11 luglio) mostra di non aver affatto compreso la portata storica di questa legge, laddove (recependo i luoghi comuni della sinistra socialdemocratica allo sbando, reattiva quanto può esserlo un pugile suonato) annota nel suo articolo in tema di Job Act: “per ora si è visto solo un decretino che liberalizza un po’ i contratti a tempo determinato, era più liberista, poi la minoranza di sinistra del PD lo ha neutralizzato in parlamento”. Ma quando mai, Feltri!
L’istituzionalizzazione della precarietà
Non solo questa caricatura della sinistra storica (una pattuglia imbelle di funzionari incompetenti che nulla sanno di come il moderno sistema imprenditoriale italiano utilizzi in concreto la manodopera e di come si definisca sul campo la retribuzione del lavoro erogato) non ha neutralizzato un bel nulla, ma il testo definitivo contiene invece un peggioramento evidente rispetto al testo originario. Basta leggere i testi coordinati su http://www.gazzettaufficiale.it per capirlo immediatamente. Consapevoli della palese violazione della direttiva europea e del contratto quadro le Camere hanno inserito, come una foglia di fico, l’adesione formale alle norme comunitarie (riducendo i limiti al solo decorso di 36 mesi e alla percentuale astronomica del 20% dell’intera forza lavoro stabile); la riduzione dei rinnovi (da 8 a 5) è una modifica irrilevante, posto che con la liberalizzazione basta inserire fra un contratto e l’altro una piccola pausa (la restrizione riguarda i rinnovi ma non esiste argine al numero dei contratti base). Ma, anche in caso di superamento della soglia percentuale, la sanzione (emendamento significativo questo, ma in danno dei precari) non è più la conversione a tempo indeterminato del contratto ma solo una modestissima sanzione economica in favore dell’erario. Le norme transitorie (articolo 2 bis) garantiscono, infine, le imprese da qualsiasi conseguenza in ordine ai contratti a termine in corso al momento del varo della norma. Rimane, certamente, come ultimo bastione, quello dei 36 mesi complessivi, ma con due ostacoli quasi insormontabili per far valere un eventuale diritto: a) non concorrono al computo di 36 mesi le assunzioni stagionali e in genere tutte le ulteriori deroghe autorizzate dai contratti collettivi; b) il mutamento formale dell’impresa all’interno di un gruppo si sottrae al calcolo che riguarda (grazie alla modifica opportunamente inserita) ciascun datore di lavoro.
Di fatto, dunque, il contratto a termine si presenta ora come la forma ordinaria del rapporto di lavoro in Italia; e l’Italia, lungi dall’essere la terra dell’ingaggio stabile, è il paese con la maggiore flessibilità e libertà di assunzione fra tutti i 28 paesi dell’unione (e con le sanzioni più leggere per le accertate violazioni). La legge Renzi-Poletti non si limita ad introdurre la precarizzazione istituzionalizzata; ha instaurato, invece, con il sistema di proroghe e rinnovi, una sorta di atomizzazione che annuncia (una rivelazione, quella che Giovanni di Patmos chiamava apocalisse) il reale modello scelto per il controllo sulla manodopera e per l’attuazione del progetto governance/profitto, ovvero una struttura del contratto di lavoro che si caratterizza per chiamata. Si tratta di un disegno assai lucido e corrispondente ai meccanismi di estrazione della ricchezza nel ciclo attuale di accumulazione del profitto; non va sottovalutato ed ha davvero gambe per camminare, ove non trovi efficace contrasto nel vivo di uno scontro sociale.
Il contratto a chiamata fu introdotto nel nostro ordinamento quasi in sordina, mediante un decreto legislativo (il 276/2003, quello di attuazione della celebre legge 30: do you remember?); fu poi soppresso, e ancora nuovamente introdotto, per trovare poi in tempi più recenti, affiancato dai meccanismi di voucher, uno sviluppo quasi inarrestabile (il piano di utilizzo della manodopera per Expo si fonda proprio su volontariato, stages, voucher e chiamata; ma anche nella logistica, adeguando il sistema di associazione cooperativa, la paga a chiamata sta diventando la normale forma di turnazione, nelle ribalte e nel picking).
L’ispirazione nazionalsocialista del governo Renzi
L’attuale forma di governo è quella di larghe intese; raggruppa, con direzione socialdemocratica, una sinistra socialista, una destra nazionale, il cattolicesimo sociale tradizionalmente moderato, l’area laica e liberale (che nel nostro paese non si è mai sbarazzata delle tentazioni autoritarie: nel 1924 diedero il sostegno alla lista di Mussolini). Possiamo dunque affermare, senza possibilità di smentita, che l’attuale esecutivo si caratterizza per una ispirazione nazionalsocialista; non deve stupire allora il richiamo della dottrina corporativa (il primo ministro Renzi proviene dall’area cattolica, l’interclassismo corporativo non è monopolio della mistica fascista, come bene ha chiarito in un bel libro il professor Umberto Romagnoli); ed anche la scelta di Job Act non può non evocare il precedente della Carta del Lavoro (21 aprile 1927).
Non è questione di nominalismo cavilloso. Lo Statuto del 1970 (che il governo nazionalsocialista vuole modificare e sostituire) porta come sottotitolo norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, è destinato, dunque, a persone, uomini e donne, in carne e ossa; sia il Job Act che la Carta del lavoro prescindono, invece, dai soggetti (che vengono strutturalmente collocati in posizione subalterna), e disciplinano l’economia, la materiale attività necessaria a portare profitto. La Carta fascista del lavoro conteneva un preambolo, in apertura dell’articolo 1, ove si affermava la superiorità dell’economia nazionale (ora diremmo europea, continentale) rispetto agli individui. Si tratta di un esordio simile, nell’enunciazione dei principi, a quello del governo nazionalsocialista presieduto da Matteo Renzi, che lega la sua proposta di regolamentazione delle prestazioni lavorative ai superiori interessi dell’Italia e dell’Europa. E sono simili anche le concezioni della rappresentanza e del lavoro, questo inteso come contributo alla prosperità dello stato. Prosegue la Carta fascista, in piena sintonia con le linee comunicate alla stampa e alla televisione dal ministro Poletti: Il lavoro sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive è un dovere sociale. Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obiettivi sono unitari. Solo il sindacato legalmente riconosciuto ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria, di stipulare contratti collettivi.
Questo concetto di rappresentanza lo abbiamo visto applicare in occasione di ogni intervento governativo, con il monito alle organizzazioni sindacali: firmare o sparire!
La cancellazione dei diritti dei lavoratori mediante la totale liberalizzazione del contratto a termine (e la quasi liberalizzazione dell’apprendistato, che comporta retribuzioni inferiori a quelle minime) è stata contrabbandata dalla sinistra socialdemocratica (e anche dalla destra liberista) come un viatico necessario per la ripresa economica e per l’incremento dell’occupazione. Dopo quattro mesi possiamo dire che la previsione era sbagliata o, in alternativa, che si trattava di una menzogna. Istat ha comunicato l’aumento dei senza lavoro; Andrea Fumagalli, in un suo recente intervento, ha ben illustrato l’andamento del reddito e del collocamento occupazionale. Ma anche la produzione non sembra affatto avere incrementi; i provvedimenti governativi che hanno reso libero e ordinario il contratto a tempo determinato si sono risolti in una misura di normalizzazione autoritaria, di cancellazione dei diritti soggettivi, di controllo politico sulle maestranze, di erosione del potere contrattuale dei lavoratori; ma non hanno condotto ad alcun rilancio dell’economia territoriale. Una funzionaria di rango elevato delle strutture finanziarie europee, Lucrezia Reichlin (peraltro sostenitrice dell’azione governativa oltre che della BCE), lamenta sul Corriere del 12 luglio il venir meno delle troppe illusioni sulla flessibilità (è il non equivoco soprattitolo) e registra un nuovo rallentamento. Reichlin chiede un cambio di passo, un nuovo framework per indirizzare l’investimento europeo verso i paesi che siano stati capaci di modificare le istituzioni interne rendendole più forti (ma non ci spiega se questa forza sia connessa a repressione o partecipazione: propendiamo per la prima ipotesi), tagliando la spesa pubblica della pubblica amministrazione e rendendo effettiva l’imposizione fiscale (anche mediante la rimozione degli scandali). Queste considerazioni lasciano intravedere alcune difficoltà che caratterizzano il renzismo emergente; in particolare appare sempre più chiaro che il pur incisivo attacco ai diritti dei lavoratori certamente rafforza la governance ma al tempo stesso non riesce a costruire un vero rilancio produttivo in quanto l’apparato di potere ha preteso ed ottenuto un prezzo di corrispettivo altissimo (inteso come aumento dei già consistenti privilegi in favore dei burocrati d’apparato: giornalisti, militari, funzionari politici, faccendieri civili o criminali). Mentre si tagliano le pensioni e si liberalizzano i licenziamenti (riducendo al tempo stesso i salari) il governo nazionalsocialista delle larghe intese ha varato il decreto legislativo 28 gennaio 2014 n. 8 (ovvero 2209 sexies del codice dell’ordinamento militare): chi fa parte dell’esercito, della marina o dell’aviazione matura la pensione a sessant’anni, ma già a cinquant’anni può ritirarsi con la contribuzione pagata e nel frattempo continuando a ricevere buona parte dello stipendio (85%) senza far nulla; per giunta possono dedicarsi ad altre attività retribuite (a differenza degli operai in cassa integrazione) senza neppure cumulare il percepito con il reddito. Stiamo parlando di circa 40.000 militari (l’organico attuale è 190.000; quello fissato è di 150.000). Il governo ha stanziato anche i fondi per il prepensionamento (non dei metalmeccanici ma) dei giornalisti appartenenti ai grandi gruppi editoriali, che infatti lo amano e lo elogiano in modo quasi imbarazzante.
La carota e il bastone e la delegittimazione del sindacato
Poco prima delle elezioni europee (stravinte) il governo Renzi ha varato il celebre decreto degli ottanta euro (decreto legge 66/2014, poi convertito in legge 23 giugno 2014 n. 89); l’articolo 1 prevede un rimborso (per la fascia compresa fra 24 e 26 mila euro) di ottanta euro mensili (trattandosi di detrazione fiscale è una somma netta) nel 2014 (per ora fino a dicembre). La mossa non va sottovalutata; per rendere l’idea di che cosa in concreto significhi dobbiamo considerare che l’aumento previsto (ma in un triennio: 2012-2014) dal contratto nazionale del settore chimico (uno dei comparti di maggior peso) è stato di 115 euro lordi (circa 80 netti), ma con assorbimento di altre voci salariali, come il superminimo (aumento spalmato: 47 euro lordi nel 2013 e 15 euro nel 2014). Nel settore dei metalmeccanici (nonostante il ribelle Landini) non è andata meglio: per un operaio specializzato (quinta super) l’aumento lordo non arriva a 50 euro (30 netti).
Il governo ha volutamente delegittimato il sindacato e portato un colpo robusto alla rappresentanza intesa come elemento contrapposto alla governance. L’aumento in busta di 80 euro mensili netti sfugge al rapporto conflittuale classe/stato; è invece presentato come il figlio necessario della manovra economica, del rinnovamento, quasi fosse la conseguenza della liberalizzazione dei contratti e dei licenziamenti, il frutto buono della flessibilità (ovvero della precarizzazione).
Il meccanismo tecnico-giuridico del bonus non è in realtà di lettura agevole, quanto alla sua reale portata; certamente contiene un anticipo generalizzato immediatamente, visibile in listino retributivo mensile, ma, trattandosi appunto di una detrazione fiscale anticipata gli effetti reali saranno verificabili solo alla fine dell’anno (ad esempio nel caso di superamento nel corso del 2014 della soglia di 24 o 26 mila euro potrebbero scattare obblighi di restituzione; e neppure sembra chiarito davvero se il reddito di riferimento possa o meno risentire di cumuli connessi al reddito di ogni singolo componente della famiglia).
L’erogazione degli 80 euro avviene quasi contestualmente ad una serie di manovre fiscali (tasse e imposte) che incidono pesantemente sui lavoratori di fascia medio-bassa. In particolare nel secondo semestre cade un sensibile aumento del costo casa (non solo per la massa dei piccoli proprietari di prima abitazione, ma anche per la marea debole degli inquilini, su cui peseranno non solo i costi di smaltimento rifiuti, ma anche il nuovo balzello dei cosiddetti servizi indivisibili); e in un periodo di crisi non sono senza conseguenze i costanti aumenti della benzina, dell’energia elettrica, del trasporto urbano, del combustibile per il riscaldamento, dei servizi bancari (resi obbligatori). L’accanimento selvaggio si manifesta con il varo di norme quali il famigerato articolo 5 che impone il taglio dei servizi a qualsiasi abusivo sprovvisto di titolo (a rigore non solo l’occupante ma anche lo sfrattato). Già ora, in attesa dell’inverno, ci stanno spiegando che l’Europa esige nuovi sacrifici, necessari alla sopravvivenza delle generazioni future.
Noi abbiamo ben chiaro che il bonus di 80 euro (una somma, abbiamo visto, peraltro superiore a quella ottenuta con gli ormai malinconici rinnovi del contratto nazionale di categoria) viene dato (non a tutti) come anticipo dalla mano destra del potere per essere presto ripreso (con gli interessi) dalla mano sinistra. Ma nella società dello spettacolo in cui si è collocato il neocapitalismo finanziarizzato la percezione ha ormai acquisito la forza di una vera e propria potenza economica (esattamente come la violenza), è un pilastro del potere, ed è pure (come in borsa e come nelle speculazioni) sentiment. Va dato atto a Matteo Renzi (che rimane tuttavia un tamarro) di averlo capito quasi per istinto e di essersene servito egregiamente. Il bonus di 80 euro netti è stato infatti percepito (perché immediatamente associato alla busta paga) come cosa dei lavoratori, legato a questa specifica prerogativa di appartenenza; ed è arrivato in un momento di crisi, di debolezza, di paura, di sbando per l’intera classe. Ne escono a pezzi le tradizionali strutture di rappresentanza sindacale, piegate ad un ruolo di puro e semplice fiancheggiamento delle istituzioni, in alternativa alla scomparsa. Il governo nazionalsocialista delle larghe intese ha deliberatamente agito al fine di prevenire forme di unificazione delle forze potenzialmente antagoniste, fuochi di ribellione sociale aperta contro i progetti della BCE e del neoliberismo europeo.
Di contro, l’aumento del prelievo di risorse monetarie non passa dalla busta paga (dunque viene percepito come cosa comune a tutti gli italiani) ma colpisce i singoli soggetti (o la famiglia dei singoli soggetti) senza consentire alcun processo di identificazione fra le vittime della manovra. Tutti si trovano isolati e separati nel momento dell’aggressione. Il progetto governativo è assolutamente funzionale all’allargamento della forbice fra redditi bassi e redditi alti; ed è innegabile che anche in Italia questo stia avvenendo in modo sistematico (ponendo al pensiero antagonista un problema serio di qualificazione teorica e di scelta pratica: la formulazione gramsciana di teoria e prassi va calata nella fase attuale di accumulazione).
Il seminario milanese sulla moneta ci ha offerto spunti assai stimolanti di riflessione e sollecitazioni di indagine; certo, qui e oggi, appare difficile separare la questione salariale dalla questione fiscale (e da quella monetaria, finanziaria, del debito, delle manovre europee). La scelta della governance si presenta davvero chiara e scoperta; la precarizzazione si pone come un percorso che il potere non è più disposto a rimandare, una scelta che non consente sul punto alcuna mediazione, l’unica forma istituzionale possibile per l’accesso alle risorse, per acquisire denaro (cavoli nostri se chiamarlo reddito o salario, per le imprese non fa differenza, non la riconoscono più, sono solo soldi). Nessuna garanzia di sopravvivenza fisica viene assicurata (rimuovendo poco alla volta anche il beneficio della spesa pubblica) se non a fronte di una piena e totale disponibilità alla chiamata; l’esistenza viene per intero inserita nel ciclo e deve rendere (deve essere fonte di accumulazione di ricchezza). Chi non rende, secondo la concezione neppure nascosta del governo nazionalsocialista, può anche crepare (una forma moderna, per fortuna meno militarizzata e tragica, del vecchio celebre Arbeit macht frei).
La chiusura del cerchio (della precarietà)
In una concezione giuridica siffatta non ha alcun senso mantenere in vita una legge come quella introdotta nel 1970, caratterizzata da obsolete norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori. Il povero Di Vittorio (cui si deve il coordinamento preparatorio di una prima bozza dello Statuto e che certo non aveva alcuna simpatia per soluzioni estremiste) si rivolterebbe nella tomba di fronte alle modifiche che il perito agrario Giuliano Poletti (segretario del partito comunista a Imola fino alla caduta del muro) si appresta a varare. Con un sistema articolato in più decreti legislativi (dunque senza necessità di un passaggio parlamentare) le vecchie norme di tutela potranno essere totalmente modificate, cancellate, sostituite. Scompaiono, già nel progetto, i vocaboli che si pongono in contrapposizione alla nuova filosofia del diritto del lavoro nazionalsocialista (delle larghe intese): non più diritti dei lavoratori ma una più sobria carta del lavoro (traduzione in italiano di Job Act); eliminazione di sostantivi qualificanti (pericolosi e poco redditizi) come libertà oppure dignità , sostituiti da formule fumose più adatte ai tempi, come rapporto a tutela crescente o magari formazione gratuita. Soprattutto la nuova filosofia esige una totale liberalizzazione delle modalità di impiego orario e di licenziamento. Il modello di lavoro nell’era Renzi è quello intermittente, ovvero a chiamata, da pagare magari con il vaucher. Il servo deve rimanere a disposizione sempre (senza libertà e con un rapporto a dignità decrescente), in attesa di essere utilizzato nelle forme che liberamente l’impresa deciderà come più utili al profitto; e la paga sarà quello che le esigenze di mercato consentiranno di dare (chi non ci sta è fuori). Uno straordinario scrittore russo (nato in Tagikistan nel 1955), Andrei Germanovic Volos, ci spiega nel monumentale romanzo Churammabad come sia cambiato il modo di calcolare il costo del lavoro, nel pieno delle guerre locali, dopo il dissolversi dell’Urss: E quanto verrà a costare? Chiese Platonov. Machmad si strinse nelle spalle: e chi può dirlo al giorno d’oggi il prezzo di questo o di quello? E’cambiato tutto. Adesso la gente paga il lavoro non per quanto esso vale, ma per quanto lo può pagare. Lei quanto lo può pagare, egregio?
I nazionalsocialisti del governo hanno fretta. Hanno molti da accontentare. La trasformazione del diritto e delle regole si pone come urgente, per loro. Dal vecchio diritto del lavoro si passa dunque ad un lavoro senza diritti, la nuova forma istituzionale che consente (con il beneplacito della BCE) di coniugare il controllo sociale all’accumulazione concentrata della ricchezza.
Qui sta la questione, alla fine. O si trova la strada di un progetto unitario e ricompositivo di riappropriazione della dignità e della libertà o lo sciame si convertirà (presto o un po’ per volta, secondo i casi e le resistenze) in una variopinta popolazione di soggetti indebitati, sempre più impoveriti, piegati e messi a profitto. Ed un progetto presuppone anche la formulazione di un programma. Magari non a Gotha, ma questo potrebbe essere il tema del prossimo seminario.
Commento by Lavoratoriscala — 22 Luglio 2014 @ 15:58
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