Il Sottoscala Per Abbado un Albero in Piazza Scala

12 Gennaio 2010

welfare metropolitano: secondo appuntamento-lunedì 18 gennaio presso il nuovo “San Precario Space”

Filed under: Uncategorized — Tag: — Lavoratoriscala @ 22:12

s.precario 3Se dovessimo scrivere l’elenco di tutte le realtà produttive (industriali e terziarie) che dichiarano di essere in crisi economica e che pretenderebbero di licenziare, non basterebbe lo spazio di questo comunicato stampa.Alcune (la minoranza) sono effettivamente i difficoltà, altre (la maggioranza) approfittano strumentalmente della crisi finanziaria per chiudere impianti produttivi e speculare sui nuovi fronti della finanzia e dell’immobile. L’Expo 2015 è un boccone troppo grosso per lasciarselo sfuggire, anche a costo di mettere sulla strada migliaia di donne e uomini.Tale situazione richiede una capacità di risposta e di analisi immediata. Il terreno di scontro è quello della riconversione territoriale e del welfare. Su questi temi , ci siamo già incontrati a fine maggio e il 2 dicembre. In questi incontri è stata presentata una bozza di proposta er un welfare metropolitano adeguato alla realtà economica lombarda. E infatti sul tema della riforma del welfare che si può rilanciare il conflitto, superando la logica dell’assistenzialismo (la classica “carota” degli ammortizzatori sociali), per chiedere invece una cassa sociale per la continuità di reddito come forma di redistribuzione, interventi su tipologie contrattuali e salario minimo (per affievolire il “bastone” del ricatto e della disciplina) e, infine, ma non ultimo, l’accesso ai servizi come forma di riappropriazione della vita (strumento pro “libertà”, accesso ai saperi, riappropriazione degli spazi e del tempo). Insieme e parallelamente ad altri percorsi, stiamo sperimentando un processo di analisi e di proposte sul tema del “welfare metropolitano”.

A tal fine, chiediamo a tutte le realtà politico-sindacali, alle realtà soggettive, individuali e/o di movimento, di partecipar al dibattito pubblico che si terrà lunedì 18 gennaio alle ore 21.00 presso il nuovo “San Precario Space” di Via Pichi 3, zona ticinese, MM2 P.ta Ticinese.

Associazione BioSSan Precario
Intelligence Precaria

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9 Comments

  1. Un anno di crisi
    Se guardiamo alla congiuntura economica, il 2009 si chiude con segnali contrastanti. Se guardiamo alla situazione sociale, l’anno si chiude in modo tragico.
    Nel corso degli ultimi 12 mesi, le borse finanziarie mondiali hanno recuperato circa il 20%, oltre il 40% se facciamo riferimento al punto di minimo toccato nel marzo scorso. E’ un andamento atteso, parzialmente “drogato” , se consideriamo che i mercati finanziari sono oggi il cuore pulsante (nel bene e nel male) del biocapitalismo contemporaneo. I facili catastrofisti di fine 2008 sono stati serviti. Tuttavia tale risultato è il risultato, soprattutto negli ultimi due mesi, di fasi altalenanti, con momenti anche di forte ribasso, sintomo di un’incertezza e una volatilità ancora troppo elevata. E non può essere altrimenti, visto le numerose “bombe” ancora inesplose che costellano il futuro dei mercati finanziari, dopo il caso Dubai (dalle carte di credito, all’esplosione di nuovi “hedge funds”, al rischio legato all’eccessivo indebitamento pubblico di molti paesi “importanti”: Grecia, Spagna, Irlanda, fra tutti, alla carenza di controllo dei cd. “fondi sovrani”). L’elevata immissione di liquidità da parte degli Stati e delle Banche Centrali (come droga iniettata nelle vene) ha consentito di tamponare le principali falle finanziarie e ha permesso, nella seconda parte dell’anno, l’arresto della caduta del Pil prima che raggiungesse livelli a rischio “default”. Nel frattempo, i dati del mercato del lavoro evidenziano una situazione drammatica. La disoccupazione in tutti i paesi avanzati ha toccato e superato il 10%, sino a oltre il 15% in alcuni contesti produttivi (Spagna e Usa). Il tasso di disoccupazione italiano, “ufficialmente” all’8,2%, inganna. Se si considerano anche i cassi-integrati e gli scoraggiati, il dato del nostro paese non solo si allinea ma supera la media europea del 12%. Ma non è solo il dato della disoccupazione ad allarmare. Esso è semplicemente la spia di una situazione ancora peggiore dal punto di vista sociale. Nel capitalismo cognitivo, infatti, l’esercito industriale di riserva non è più costituito dai disoccupati ma sempre più dai precari. E sono proprio i dati sulla precarizzazione che alimentano previsioni poco rosee sulla capacità di tenuta del nostro paese, una volta fuoriusciti dalle fasi più buie della crisi. A dispetto di quanto spergiurano i nostri governanti, novelli ufficiali che ballano sul Titanic che sta naufragando.
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    Ciò a cui stiamo assistendo è, infatti, un costante scivolamento verso le fasce più deboli e meno protette della precarietà. Chi sino a poco tempo fa aveva un contratto stabile di lavoro, se licenziato, oggi si deve accontentare di un contratto atipico, magari con qualche garanzia in termini di previdenza e diritti del lavoro. Chi, invece, si trovava già nel limbo della condizione precaria, assiste, impotente, in assenza di qualunque forma di ammortizzatore sociale che garantisca continuità di reddito, ad un degrado delle proprie condizioni contrattuali e salariali. In ultimo, stanno i migranti, soggetti per di più alla repressione quotidiana dei più elementari diritti di cittadinanza.
    Si tratta di una tendenza al peggioramento delle condizioni soprattutto di reddito che colpisce tutti i settori lavorativi, in particolari quelli legati alle nuove professioni del terziario, a maggior contenuto cognitivo,a istruzione più elevata e più soggetti alla precarietà. Paradossalmente, sono gli operai dell’industria che meglio riescono ad organizzarsi per impedire la chiusura di fabbriche (a causa di speculazioni immobiliari e finanziarie) , proprio perché gli unici in grado di accedere ai quei pochi e miseri ammortizzatori sociali che ancora esistono (Cig e mobilità) e quindi di essere, seppur limitatamente, meno ricattabili sul piano del reddito. Le lotte in atto (portate spesso all’estremo) ci mostrano che anche la capacità concertativa del sindacato è venuta meno. La vertenza appena chiusa per il rinnovo contrattuale dei giornalisti è, da questo punto di vista, paradigmatica. In cambio di quattro miseri soldi (ma conditi a parole dal riconoscimento di una professionalità sempre più servile), si scaricano i costi della ristrutturazione e della crisi del settore su quei 2/3 della categoria (spesso non riconosciuti professionalmente) che lavorano nei media come precari invisibili a bassissimo salario. Esempi simili sono riscontrabili nel settore della ricerca come in quello dell’istruzione, oppure nel settore cosiddetto dei “creativi”.
    Le ricadute economiche e sociali di tale situazione si fanno già sentire. I più recenti dati annotano un ulteriore aumento della concentrazione della ricchezza: il 10% della popolazione più ricca arriva a detenere quasi il 40% della ricchezza patrimoniale complessiva (dati BdI). L’ideologia neoliberista e neo-con del “siamo tutti proprietari” si infrange miseramente contro lo spirito predatore e gerarchico del “libero” mercato. Se invece guardiamo al flusso dei redditi per il biennio 2007-08, il 20% della popolazione più abbiente si è accaparrata di quasi il 50% del valore aggiunto prodotto, mentre il 20% più povero si è dovuto accontentare di meno del 10% (dati Cies, 2009)
    Sul piano della capacità di ripresa, infine, è facile osservare che i settori a maggior valore aggiunto per addetto, cioè quelli produttivi di valore, sono oggi quelli a maggior intensità di conoscenza, all’interno del terziario avanzato. In Italia tali settori sono arrivati a coprire quasi il 30% dell’occupazione e contribuiscono per più di un terzo alla creazione del valore aggiunto. Essi sono del tutto abbandonati a loro stessi. Le strategie padronali, sia private che pubbliche, attuano solo strategie di contenimento dei costi, pochissimi sono gli investimenti in innovazione. L’attività di ricerca e informazione è oramai quasi in estinzione. Manca qualsiasi idea di valorizzazione delle competenze che pure abbondantemente sono presenti. Al loro interno le disparità di condizione di lavoro e di reddito sono molto elevate. E’ l’esito di quello che possiamo definire una “guerra all’intelligenza” (cfr. Manifesto dei lavoratori della conoscenza, http://www.precaria.org/ materiale) . Di fatto, in Italia non esiste una capitalismo cognitivo degno di tal nome, così come non esiste un capitalismo manageriale.
    Sulla base di queste contestazioni, il 2010 pone due nodi irrisolti nell’agenda dei movimenti sociali. Da un lato, diventa primario impostare una battaglia per una riforma del welfare adeguato alle nuove forme di sfruttamento e scomposizione del lavoro. Parliamo qui di un welfare in grado di garantire due obiettivi precisi: 1. continuità di reddito per tutte/i a prescindere dalla condizione lavorativa, con proposte finalizzate a creare casse sociali per il reddito in tutte le regioni italiani, che vadano oltre l’attuale struttura degli ammortizzatori sociali: una struttura che oggi non è più riformabile, ma crea solo iniquità e distorsioni redistributive, alimentando concertazione e opportunismo politico. 2. Accesso libero e gratuito ai beni comuni materiali (risorse naturali, acqua, energia, ambiente) e immateriali (conoscenza, formazione, mobilità, casa, socialità). Si tratta in ultima istanza di lanciare una battaglia per il “common fare”.
    Dall’altro lato, diventa importante aprire un fronte di conflittualità nei nuovi settori della conoscenza, oggi scomposti e tra loro in competizione, tramite nuove forme di strategie biosindacali in grado di aggredire la condizione esistenziale e generalizzata della precarietà. Ricomporre le diverse condizioni lavorative in un’unica vertenza sociale, territoriale e …

    Commento by AutoOrgScala — 12 Gennaio 2010 @ 21:22

  2. Un anno di crisi
    Se guardiamo alla congiuntura economica, il 2009 si chiude con segnali contrastanti. Se guardiamo alla situazione sociale, l’anno si chiude in modo tragico.
    Nel corso degli ultimi 12 mesi, le borse finanziarie mondiali hanno recuperato circa il 20%, oltre il 40% se facciamo riferimento al punto di minimo toccato nel marzo scorso. E’ un andamento atteso, parzialmente “drogato” , se consideriamo che i mercati finanziari sono oggi il cuore pulsante (nel bene e nel male) del biocapitalismo contemporaneo. I facili catastrofisti di fine 2008 sono stati serviti. Tuttavia tale risultato è il risultato, soprattutto negli ultimi due mesi, di fasi altalenanti, con momenti anche di forte ribasso, sintomo di un’incertezza e una volatilità ancora troppo elevata. E non può essere altrimenti, visto le numerose “bombe” ancora inesplose che costellano il futuro dei mercati finanziari, dopo il caso Dubai (dalle carte di credito, all’esplosione di nuovi “hedge funds”, al rischio legato all’eccessivo indebitamento pubblico di molti paesi “importanti”: Grecia, Spagna, Irlanda, fra tutti, alla carenza di controllo dei cd. “fondi sovrani”). L’elevata immissione di liquidità da parte degli Stati e delle Banche Centrali (come droga iniettata nelle vene) ha consentito di tamponare le principali falle finanziarie e ha permesso, nella seconda parte dell’anno, l’arresto della caduta del Pil prima che raggiungesse livelli a rischio “default”. Nel frattempo, i dati del mercato del lavoro evidenziano una situazione drammatica. La disoccupazione in tutti i paesi avanzati ha toccato e superato il 10%, sino a oltre il 15% in alcuni contesti produttivi (Spagna e Usa). Il tasso di disoccupazione italiano, “ufficialmente” all’8,2%, inganna. Se si considerano anche i cassi-integrati e gli scoraggiati, il dato del nostro paese non solo si allinea ma supera la media europea del 12%. Ma non è solo il dato della disoccupazione ad allarmare. Esso è semplicemente la spia di una situazione ancora peggiore dal punto di vista sociale. Nel capitalismo cognitivo, infatti, l’esercito industriale di riserva non è più costituito dai disoccupati ma sempre più dai precari. E sono proprio i dati sulla precarizzazione che alimentano previsioni poco rosee sulla capacità di tenuta del nostro paese, una volta fuoriusciti dalle fasi più buie della crisi. A dispetto di quanto spergiurano i nostri governanti, novelli ufficiali che ballano sul Titanic che sta naufragando.
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    Si tratta di una tendenza al peggioramento delle condizioni soprattutto di reddito che colpisce tutti i settori lavorativi, in particolari quelli legati alle nuove professioni del terziario, a maggior contenuto cognitivo,a istruzione più elevata e più soggetti alla precarietà. Paradossalmente, sono gli operai dell’industria che meglio riescono ad organizzarsi per impedire la chiusura di fabbriche (a causa di speculazioni immobiliari e finanziarie) , proprio perché gli unici in grado di accedere ai quei pochi e miseri ammortizzatori sociali che ancora esistono (Cig e mobilità) e quindi di essere, seppur limitatamente, meno ricattabili sul piano del reddito. Le lotte in atto (portate spesso all’estremo) ci mostrano che anche la capacità concertativa del sindacato è venuta meno. La vertenza appena chiusa per il rinnovo contrattuale dei giornalisti è, da questo punto di vista, paradigmatica. In cambio di quattro miseri soldi (ma conditi a parole dal riconoscimento di una professionalità sempre più servile), si scaricano i costi della ristrutturazione e della crisi del settore su quei 2/3 della categoria (spesso non riconosciuti professionalmente) che lavorano nei media come precari invisibili a bassissimo salario. Esempi simili sono riscontrabili nel settore della ricerca come in quello dell’istruzione, oppure nel settore cosiddetto dei “creativi”.
    Le ricadute economiche e sociali di tale situazione si fanno già sentire. I più recenti dati annotano un ulteriore aumento della concentrazione della ricchezza: il 10% della popolazione più ricca arriva a detenere quasi il 40% della ricchezza patrimoniale complessiva (dati BdI). L’ideologia neoliberista e neo-con del “siamo tutti proprietari” si infrange miseramente contro lo spirito predatore e gerarchico del “libero” mercato. Se invece guardiamo al flusso dei redditi per il biennio 2007-08, il 20% della popolazione più abbiente si è accaparrata di quasi il 50% del valore aggiunto prodotto, mentre il 20% più povero si è dovuto accontentare di meno del 10% (dati Cies, 2009)
    Sul piano della capacità di ripresa, infine, è facile osservare che i settori a maggior valore aggiunto per addetto, cioè quelli produttivi di valore, sono oggi quelli a maggior intensità di conoscenza, all’interno del terziario avanzato. In Italia tali settori sono arrivati a coprire quasi il 30% dell’occupazione e contribuiscono per più di un terzo alla creazione del valore aggiunto. Essi sono del tutto abbandonati a loro stessi. Le strategie padronali, sia private che pubbliche, attuano solo strategie di contenimento dei costi, pochissimi sono gli investimenti in innovazione. L’attività di ricerca e informazione è oramai quasi in estinzione. Manca qualsiasi idea di valorizzazione delle competenze che pure abbondantemente sono presenti. Al loro interno le disparità di condizione di lavoro e di reddito sono molto elevate. E’ l’esito di quello che possiamo definire una “guerra all’intelligenza” (cfr. Manifesto dei lavoratori della conoscenza, http://www.precaria.org/ materiale) . Di fatto, in Italia non esiste una capitalismo cognitivo degno di tal nome, così come non esiste un capitalismo manageriale.
    Sulla base di queste contestazioni, il 2010 pone due nodi irrisolti nell’agenda dei movimenti sociali. Da un lato, diventa primario impostare una battaglia per una riforma del welfare adeguato alle nuove forme di sfruttamento e scomposizione del lavoro. Parliamo qui di un welfare in grado di garantire due obiettivi precisi: 1. continuità di reddito per tutte/i a prescindere dalla condizione lavorativa, con proposte finalizzate a creare casse sociali per il reddito in tutte le regioni italiani, che vadano oltre l’attuale struttura degli ammortizzatori sociali: una struttura che oggi non è più riformabile, ma crea solo iniquità e distorsioni redistributive, alimentando concertazione e opportunismo politico. 2. Accesso libero e gratuito ai beni comuni materiali (risorse naturali, acqua, energia, ambiente) e immateriali (conoscenza, formazione, mobilità, casa, socialità). Si tratta in ultima istanza di lanciare una battaglia per il “common fare”.
    Dall’altro lato, diventa importante aprire un fronte di conflittualità nei nuovi settori della conoscenza, oggi scomposti e tra loro in competizione, tramite nuove forme di strategie biosindacali in grado di aggredire la condizione esistenziale e generalizzata della precarietà. Ricomporre le diverse condizioni lavorative in un’unica vertenza sociale, territoriale e …

    Commento by AutoOrgScala — 12 Gennaio 2010 @ 21:22

  3. Un anno di crisi
    Se guardiamo alla congiuntura economica, il 2009 si chiude con segnali contrastanti. Se guardiamo alla situazione sociale, l’anno si chiude in modo tragico.
    Nel corso degli ultimi 12 mesi, le borse finanziarie mondiali hanno recuperato circa il 20%, oltre il 40% se facciamo riferimento al punto di minimo toccato nel marzo scorso. E’ un andamento atteso, parzialmente “drogato” , se consideriamo che i mercati finanziari sono oggi il cuore pulsante (nel bene e nel male) del biocapitalismo contemporaneo. I facili catastrofisti di fine 2008 sono stati serviti. Tuttavia tale risultato è il risultato, soprattutto negli ultimi due mesi, di fasi altalenanti, con momenti anche di forte ribasso, sintomo di un’incertezza e una volatilità ancora troppo elevata. E non può essere altrimenti, visto le numerose “bombe” ancora inesplose che costellano il futuro dei mercati finanziari, dopo il caso Dubai (dalle carte di credito, all’esplosione di nuovi “hedge funds”, al rischio legato all’eccessivo indebitamento pubblico di molti paesi “importanti”: Grecia, Spagna, Irlanda, fra tutti, alla carenza di controllo dei cd. “fondi sovrani”). L’elevata immissione di liquidità da parte degli Stati e delle Banche Centrali (come droga iniettata nelle vene) ha consentito di tamponare le principali falle finanziarie e ha permesso, nella seconda parte dell’anno, l’arresto della caduta del Pil prima che raggiungesse livelli a rischio “default”. Nel frattempo, i dati del mercato del lavoro evidenziano una situazione drammatica. La disoccupazione in tutti i paesi avanzati ha toccato e superato il 10%, sino a oltre il 15% in alcuni contesti produttivi (Spagna e Usa). Il tasso di disoccupazione italiano, “ufficialmente” all’8,2%, inganna. Se si considerano anche i cassi-integrati e gli scoraggiati, il dato del nostro paese non solo si allinea ma supera la media europea del 12%. Ma non è solo il dato della disoccupazione ad allarmare. Esso è semplicemente la spia di una situazione ancora peggiore dal punto di vista sociale. Nel capitalismo cognitivo, infatti, l’esercito industriale di riserva non è più costituito dai disoccupati ma sempre più dai precari. E sono proprio i dati sulla precarizzazione che alimentano previsioni poco rosee sulla capacità di tenuta del nostro paese, una volta fuoriusciti dalle fasi più buie della crisi. A dispetto di quanto spergiurano i nostri governanti, novelli ufficiali che ballano sul Titanic che sta naufragando.
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    Si tratta di una tendenza al peggioramento delle condizioni soprattutto di reddito che colpisce tutti i settori lavorativi, in particolari quelli legati alle nuove professioni del terziario, a maggior contenuto cognitivo,a istruzione più elevata e più soggetti alla precarietà. Paradossalmente, sono gli operai dell’industria che meglio riescono ad organizzarsi per impedire la chiusura di fabbriche (a causa di speculazioni immobiliari e finanziarie) , proprio perché gli unici in grado di accedere ai quei pochi e miseri ammortizzatori sociali che ancora esistono (Cig e mobilità) e quindi di essere, seppur limitatamente, meno ricattabili sul piano del reddito. Le lotte in atto (portate spesso all’estremo) ci mostrano che anche la capacità concertativa del sindacato è venuta meno. La vertenza appena chiusa per il rinnovo contrattuale dei giornalisti è, da questo punto di vista, paradigmatica. In cambio di quattro miseri soldi (ma conditi a parole dal riconoscimento di una professionalità sempre più servile), si scaricano i costi della ristrutturazione e della crisi del settore su quei 2/3 della categoria (spesso non riconosciuti professionalmente) che lavorano nei media come precari invisibili a bassissimo salario. Esempi simili sono riscontrabili nel settore della ricerca come in quello dell’istruzione, oppure nel settore cosiddetto dei “creativi”.
    Le ricadute economiche e sociali di tale situazione si fanno già sentire. I più recenti dati annotano un ulteriore aumento della concentrazione della ricchezza: il 10% della popolazione più ricca arriva a detenere quasi il 40% della ricchezza patrimoniale complessiva (dati BdI). L’ideologia neoliberista e neo-con del “siamo tutti proprietari” si infrange miseramente contro lo spirito predatore e gerarchico del “libero” mercato. Se invece guardiamo al flusso dei redditi per il biennio 2007-08, il 20% della popolazione più abbiente si è accaparrata di quasi il 50% del valore aggiunto prodotto, mentre il 20% più povero si è dovuto accontentare di meno del 10% (dati Cies, 2009)
    Sul piano della capacità di ripresa, infine, è facile osservare che i settori a maggior valore aggiunto per addetto, cioè quelli produttivi di valore, sono oggi quelli a maggior intensità di conoscenza, all’interno del terziario avanzato. In Italia tali settori sono arrivati a coprire quasi il 30% dell’occupazione e contribuiscono per più di un terzo alla creazione del valore aggiunto. Essi sono del tutto abbandonati a loro stessi. Le strategie padronali, sia private che pubbliche, attuano solo strategie di contenimento dei costi, pochissimi sono gli investimenti in innovazione. L’attività di ricerca e informazione è oramai quasi in estinzione. Manca qualsiasi idea di valorizzazione delle competenze che pure abbondantemente sono presenti. Al loro interno le disparità di condizione di lavoro e di reddito sono molto elevate. E’ l’esito di quello che possiamo definire una “guerra all’intelligenza” (cfr. Manifesto dei lavoratori della conoscenza, http://www.precaria.org/ materiale) . Di fatto, in Italia non esiste una capitalismo cognitivo degno di tal nome, così come non esiste un capitalismo manageriale.
    Sulla base di queste contestazioni, il 2010 pone due nodi irrisolti nell’agenda dei movimenti sociali. Da un lato, diventa primario impostare una battaglia per una riforma del welfare adeguato alle nuove forme di sfruttamento e scomposizione del lavoro. Parliamo qui di un welfare in grado di garantire due obiettivi precisi: 1. continuità di reddito per tutte/i a prescindere dalla condizione lavorativa, con proposte finalizzate a creare casse sociali per il reddito in tutte le regioni italiani, che vadano oltre l’attuale struttura degli ammortizzatori sociali: una struttura che oggi non è più riformabile, ma crea solo iniquità e distorsioni redistributive, alimentando concertazione e opportunismo politico. 2. Accesso libero e gratuito ai beni comuni materiali (risorse naturali, acqua, energia, ambiente) e immateriali (conoscenza, formazione, mobilità, casa, socialità). Si tratta in ultima istanza di lanciare una battaglia per il “common fare”.
    Dall’altro lato, diventa importante aprire un fronte di conflittualità nei nuovi settori della conoscenza, oggi scomposti e tra loro in competizione, tramite nuove forme di strategie biosindacali in grado di aggredire la condizione esistenziale e generalizzata della precarietà. Ricomporre le diverse condizioni lavorative in un’unica vertenza sociale, territoriale e …

    Commento by AutoOrgScala — 12 Gennaio 2010 @ 21:22

  4. Il contratto unico…precario by Boeri & C.

    La riforma del Welfare targata Boeri, che piace tanto alla pseudosinistra
    Da cinque anni a questa parte l’insicurezza di reddito è diventata di moda. Il tabù di un tempo, guai a parlare di precarietà, è diventato trendy ed è tutto un fiorire di libri, articoli, film, opere teatrali che trattano dell’argomento.
    Finchè si tratta di operazioni commerciali non meritano risposte. Troppo il disgusto per chi traveste il marketing di ipocriti ‘scopi sociali’. Ma quando la paura del futuro e la competizione per il reddito, riguarda milioni di persone e a scriverne sono economisti del calibro del professor Tito Boeri, una risposta è d’obbligo.
    Non fosse altro perché l’esimio docente della Bocconi, nonché editorialista della Repubblica, coordinatore del sito http://www.lavoce.info, è tenuto in grande considerazione da tutti quei soggetti politici e sindacali che ancora si sforzano di definirsi ‘riformisti’ o addirittura di ‘sinistra’. Le sue proposte trovano estimatori nella segreteria nazionale Cgil.
    Il maggior pregio di ‘Un nuovo contratto per tutti’ di Boeri e Garibaldi, edito nel 2008 da Chiarelettere editore, è quello di svelare quali siano le idee di riforma del lavoro di un’ampia area delle elites italiane che puntualmente si tramutano in leggi, contratti e scelte di politica economica.
    Chi paga la riforma?
    Partendo da una descrizione del mercato del lavoro, che purtroppo non rispetta più l’attualità (la disoccupazione oggi non è più ai livelli del 2007/2008) supportata da un buon riepilogo storico dal 1964 ad oggi, gli autori lanciano la proposta di un contratto di lavoro unico, a tempo indeterminato senza limitazioni di tempo. Basta con lo ‘psicodramma’ (la definizione è dell’autore) dell’apposizione di un termine al contratto! Boeri parla di un mercato duale in cui gli atipici sono la parte emarginata. Per superare le differenze propone la creazione di un salario minimo orario, di un reddito minimo di sussistenza, indennità di disoccupazione uguale per tutti, e una serie di diritti minimi inderogabili validi universalmente. Dopo 3 anni, durante i quali il licenziamento è concesso previo indennizzo economico, il contratto diventa a tempo indeterminato, simile a quelli che ancora conosciamo oggi. I soldi per finanziare un riforma così totale del lavoro? Ci sono, dice il professore, basta eliminare gli attuali sussidi (cassa integrazione, mobilità, contratti di solidarietà, indennità di disoccupazione), unificare il fondo INPS a quello della gestione separata dei Co.co.pro. e aumentare i contributi pensionistici dei ‘precari’ fino ad arrivare al 33%. Aliquota oggi prevista da contratti a tempo indeterminato e determinato.
    Boeri nel paese delle meraviglie
    L’esperienza degli ultimi 2 anni, però, avrebbe dovuto mettere in guardia un economista esperto sulla validità di ricette tanto teoriche. Lontane non solo dal drammatico vissuto quotidiano di lavoratori in nero, partite iva a unico committente, interinali e contratti a progetto, ma anche dalla presunta verità scientifica. In realtà tali proposte rappresentano un pericolo per tutti i lavoratori, senza differenza di contratto. Infatti, è proprio in scritti come quello di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, che gran parte delle classi dirigenti trovano la giustificazione tecnica per scelte che negli ultimi 20 anni, e non ci vuole un PhD alla New York University per capirlo, non sono andate a favore della maggioranza dei cittadini italiani.
    Performance contro i fannulloni: i nuovi dogma dei tecnocrati
    Per rendersene conto basti osservare che non solo le idee ma alcuni dei termini utilizzati in varie parti del libro, come merito, produttività e performance, siano i caposaldi di tutte le ultime leggi promulgate dal governo: dall’accordo del 22 gennaio 2009 sulla riforma contrattuale, al Decreto legge Brunetta, passando per il rinnovo dei contratti del Commercio, il Decreto legge su conciliazione e arbitrato, il contratto nazionale dei Chimici fino ai nuovi contratti in discussione in questi mesi. Non tralasciando l’intesa di fondo con la proposta di legge che prevede l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, presentata da un altro professore, Pietro Ichino del P.d., l’ideatore dell’insulto diventato un ritornello, rivolto ai dipendenti di ministeri ed enti pubblici: ‘fannulloni’.
    Fantasia al posto della giusta causa
    Pensare di cambiare la situazione esistente con una legge, per quanto ambiziosa, è puro esercizio di fantasia. Manca tutta la parte relativa ai controlli, impossibili senza una seria riforma degli ispettorati del lavoro. Riformare per aggiungere, migliorare, investire e non per togliere la cassa integrazione, rimasta l’unico argine alla crisi dilagante.
    E quale sarebbe la forza capace di costringere imprenditori e multinazionali, studi di commercialisti e case editrici, fabbriche e aziende agricole a pagare il 33% dei contributi a tutti, visto che impiegano centinaia di migliaia di lavoratori in nero (0% di contributi) co.co.pro (24% ma 1/3 lo paga il lavoratore) partite iva a unico committente (0% e scaricabili negli studi di settore), apprendisti (contributi ridotti a seconda del contratto)? Boeri non ce lo dice. Secondo lui un buon parametro di controllo potrebbe essere il calcolo del reddito tramite l’I.S.E.E., un’autocertificazione oggi usata per accedere ai servizi sociali, alle case popolari, agli asili nido. Complimenti. Ottima soluzione l’autocertificazione, in un paese dove 1/3 dell’economia è sommersa, il nero diffusissimo e l’evasione fiscale è recentemente stata condonata per legge.
    I risultati delle riforme
    Il risultato, come si è visto dopo l’introduzione dei contratti formazione lavoro, della liberalizzazione del part-time, del lavoro interinale, sarebbe privare anche quelle persone che oggi riescono a farsi assumere a tempo indeterminato per 3 anni delle tutele loro garantite dalla legge. Se Boeri e Garibaldi avessero mai svolto lavori precari ‘veri’ inoltre, saprebbero bene che la loro visione dell’azienda che non licenzia il precario: ‘perché dopo tre anni il prezzo da pagare per le imprese che hanno investito così tanto in capitale umano sarebbe troppo alto’ è vera solo in minima parte.
    Un silenzio assordante
    Il libro inoltre, parlando degli anni che vanno dall’esplosione incontrollata dei co.co.co. alla legalizzazione del caporalato (la Legge Treu sul lavoro interinale) fino alla precarizzazione di massa degli ultimi mesi, li definisce una ‘Rivoluzione silenziosa’. Secondo l’autore i cambiamenti sarebbero avvenuti in silenzio, senza che nessuno quasi se ne accorgesse.
    Che faccia tosta! Ma silenziosa per chi?
    Non certo per i precari e per chi da anni cerca, inascoltato, di gridare ai quattro venti le follie di un mondo del lavoro diventato un incubo. Cercando di urlare al conducente: Ohh! Ma dove cazzo stai andando! O detto più educatamente: di avvertire dei pericoli che la discontinuità di reddito avrebbe provocato e che oggi sono sotto gli occhi di tutti.
    Le lacrime di coccodrillo-Treu
    Da leggere il curioso siparietto condito da smisurati elogi all’ex ministro del lavoro Tiziano Treu e attuale responsabile lavoro del P.D. (quello che ha legalizzato l’intermediazione di manodopera, un tempo conosciuta sotto il nome di caporalato). In una intervista del 2005 ha onestamente ammesso, bontà sua, che è normale che le aziende assumano interinali o contratti a progetto visto i costi minimi sia in termini di diritti che economici. Grande, ci ha messo 8 anni ad ammettere e capire che la sua riforma oltre a far emergere lavoro nero (forse) ha legalizzato una condizione lavorativa di forte inferiorità. E non basta a placare il risentimento di intere generazioni di condannati al precariato, sapere che quelle norme furono sottoscritte da tutti i partiti presenti in parlamento dal 1993 ad oggi, comunisti inclusi, come fa cinicamente notare Boeri, che è anche consulente del Fondo Monetario Internazionale (F.M.I.).
    Fermare le cause di lavoro
    Nel libro manca tutta l’analisi politica: cioè chi sono le forze che possono …

    Commento by anonimo — 18 Gennaio 2010 @ 22:01

  5. Il contratto unico…precario by Boeri & C.

    La riforma del Welfare targata Boeri, che piace tanto alla pseudosinistra
    Da cinque anni a questa parte l’insicurezza di reddito è diventata di moda. Il tabù di un tempo, guai a parlare di precarietà, è diventato trendy ed è tutto un fiorire di libri, articoli, film, opere teatrali che trattano dell’argomento.
    Finchè si tratta di operazioni commerciali non meritano risposte. Troppo il disgusto per chi traveste il marketing di ipocriti ‘scopi sociali’. Ma quando la paura del futuro e la competizione per il reddito, riguarda milioni di persone e a scriverne sono economisti del calibro del professor Tito Boeri, una risposta è d’obbligo.
    Non fosse altro perché l’esimio docente della Bocconi, nonché editorialista della Repubblica, coordinatore del sito http://www.lavoce.info, è tenuto in grande considerazione da tutti quei soggetti politici e sindacali che ancora si sforzano di definirsi ‘riformisti’ o addirittura di ‘sinistra’. Le sue proposte trovano estimatori nella segreteria nazionale Cgil.
    Il maggior pregio di ‘Un nuovo contratto per tutti’ di Boeri e Garibaldi, edito nel 2008 da Chiarelettere editore, è quello di svelare quali siano le idee di riforma del lavoro di un’ampia area delle elites italiane che puntualmente si tramutano in leggi, contratti e scelte di politica economica.
    Chi paga la riforma?
    Partendo da una descrizione del mercato del lavoro, che purtroppo non rispetta più l’attualità (la disoccupazione oggi non è più ai livelli del 2007/2008) supportata da un buon riepilogo storico dal 1964 ad oggi, gli autori lanciano la proposta di un contratto di lavoro unico, a tempo indeterminato senza limitazioni di tempo. Basta con lo ‘psicodramma’ (la definizione è dell’autore) dell’apposizione di un termine al contratto! Boeri parla di un mercato duale in cui gli atipici sono la parte emarginata. Per superare le differenze propone la creazione di un salario minimo orario, di un reddito minimo di sussistenza, indennità di disoccupazione uguale per tutti, e una serie di diritti minimi inderogabili validi universalmente. Dopo 3 anni, durante i quali il licenziamento è concesso previo indennizzo economico, il contratto diventa a tempo indeterminato, simile a quelli che ancora conosciamo oggi. I soldi per finanziare un riforma così totale del lavoro? Ci sono, dice il professore, basta eliminare gli attuali sussidi (cassa integrazione, mobilità, contratti di solidarietà, indennità di disoccupazione), unificare il fondo INPS a quello della gestione separata dei Co.co.pro. e aumentare i contributi pensionistici dei ‘precari’ fino ad arrivare al 33%. Aliquota oggi prevista da contratti a tempo indeterminato e determinato.
    Boeri nel paese delle meraviglie
    L’esperienza degli ultimi 2 anni, però, avrebbe dovuto mettere in guardia un economista esperto sulla validità di ricette tanto teoriche. Lontane non solo dal drammatico vissuto quotidiano di lavoratori in nero, partite iva a unico committente, interinali e contratti a progetto, ma anche dalla presunta verità scientifica. In realtà tali proposte rappresentano un pericolo per tutti i lavoratori, senza differenza di contratto. Infatti, è proprio in scritti come quello di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, che gran parte delle classi dirigenti trovano la giustificazione tecnica per scelte che negli ultimi 20 anni, e non ci vuole un PhD alla New York University per capirlo, non sono andate a favore della maggioranza dei cittadini italiani.
    Performance contro i fannulloni: i nuovi dogma dei tecnocrati
    Per rendersene conto basti osservare che non solo le idee ma alcuni dei termini utilizzati in varie parti del libro, come merito, produttività e performance, siano i caposaldi di tutte le ultime leggi promulgate dal governo: dall’accordo del 22 gennaio 2009 sulla riforma contrattuale, al Decreto legge Brunetta, passando per il rinnovo dei contratti del Commercio, il Decreto legge su conciliazione e arbitrato, il contratto nazionale dei Chimici fino ai nuovi contratti in discussione in questi mesi. Non tralasciando l’intesa di fondo con la proposta di legge che prevede l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, presentata da un altro professore, Pietro Ichino del P.d., l’ideatore dell’insulto diventato un ritornello, rivolto ai dipendenti di ministeri ed enti pubblici: ‘fannulloni’.
    Fantasia al posto della giusta causa
    Pensare di cambiare la situazione esistente con una legge, per quanto ambiziosa, è puro esercizio di fantasia. Manca tutta la parte relativa ai controlli, impossibili senza una seria riforma degli ispettorati del lavoro. Riformare per aggiungere, migliorare, investire e non per togliere la cassa integrazione, rimasta l’unico argine alla crisi dilagante.
    E quale sarebbe la forza capace di costringere imprenditori e multinazionali, studi di commercialisti e case editrici, fabbriche e aziende agricole a pagare il 33% dei contributi a tutti, visto che impiegano centinaia di migliaia di lavoratori in nero (0% di contributi) co.co.pro (24% ma 1/3 lo paga il lavoratore) partite iva a unico committente (0% e scaricabili negli studi di settore), apprendisti (contributi ridotti a seconda del contratto)? Boeri non ce lo dice. Secondo lui un buon parametro di controllo potrebbe essere il calcolo del reddito tramite l’I.S.E.E., un’autocertificazione oggi usata per accedere ai servizi sociali, alle case popolari, agli asili nido. Complimenti. Ottima soluzione l’autocertificazione, in un paese dove 1/3 dell’economia è sommersa, il nero diffusissimo e l’evasione fiscale è recentemente stata condonata per legge.
    I risultati delle riforme
    Il risultato, come si è visto dopo l’introduzione dei contratti formazione lavoro, della liberalizzazione del part-time, del lavoro interinale, sarebbe privare anche quelle persone che oggi riescono a farsi assumere a tempo indeterminato per 3 anni delle tutele loro garantite dalla legge. Se Boeri e Garibaldi avessero mai svolto lavori precari ‘veri’ inoltre, saprebbero bene che la loro visione dell’azienda che non licenzia il precario: ‘perché dopo tre anni il prezzo da pagare per le imprese che hanno investito così tanto in capitale umano sarebbe troppo alto’ è vera solo in minima parte.
    Un silenzio assordante
    Il libro inoltre, parlando degli anni che vanno dall’esplosione incontrollata dei co.co.co. alla legalizzazione del caporalato (la Legge Treu sul lavoro interinale) fino alla precarizzazione di massa degli ultimi mesi, li definisce una ‘Rivoluzione silenziosa’. Secondo l’autore i cambiamenti sarebbero avvenuti in silenzio, senza che nessuno quasi se ne accorgesse.
    Che faccia tosta! Ma silenziosa per chi?
    Non certo per i precari e per chi da anni cerca, inascoltato, di gridare ai quattro venti le follie di un mondo del lavoro diventato un incubo. Cercando di urlare al conducente: Ohh! Ma dove cazzo stai andando! O detto più educatamente: di avvertire dei pericoli che la discontinuità di reddito avrebbe provocato e che oggi sono sotto gli occhi di tutti.
    Le lacrime di coccodrillo-Treu
    Da leggere il curioso siparietto condito da smisurati elogi all’ex ministro del lavoro Tiziano Treu e attuale responsabile lavoro del P.D. (quello che ha legalizzato l’intermediazione di manodopera, un tempo conosciuta sotto il nome di caporalato). In una intervista del 2005 ha onestamente ammesso, bontà sua, che è normale che le aziende assumano interinali o contratti a progetto visto i costi minimi sia in termini di diritti che economici. Grande, ci ha messo 8 anni ad ammettere e capire che la sua riforma oltre a far emergere lavoro nero (forse) ha legalizzato una condizione lavorativa di forte inferiorità. E non basta a placare il risentimento di intere generazioni di condannati al precariato, sapere che quelle norme furono sottoscritte da tutti i partiti presenti in parlamento dal 1993 ad oggi, comunisti inclusi, come fa cinicamente notare Boeri, che è anche consulente del Fondo Monetario Internazionale (F.M.I.).
    Fermare le cause di lavoro
    Nel libro manca tutta l’analisi politica: cioè chi sono le forze che possono …

    Commento by anonimo — 18 Gennaio 2010 @ 22:01

  6. Welfare Metropolitano FAQ

    Cerchiamo di rispondere alle domande più frequenti che sono state già oggetto di un acceso dibattito lo scorso incontro sul Welfare metropolitano…
    Ma dove si trovano i soldi per finanziare la continuità di reddito? Chi paga? E concretamente da dove diavolo si prendono ’sti soldi? Diritto al lavoro, diritto alla scelta del lavoro? Chi va poi in fonderia a lavorare? A chi gioverebbe? Chi gestisce l’erogazione?
     

    1. Ma ci sono i soldi?
    Ovvero l’annosa questione del finanziamento della cassa sociale del reddito.
    Ci dicono sempre che soldi non ce ne sono, e quindi occorre ridurre le pensioni, privatizzare i servizi sociali, tagliare scuola e sanità. In Italia, poi, con l’elevato debito pubblico che c’è, non c’è proprio altra possibilità. Figurarsi, quindi, finanziare un reddito sganciato dal lavoro.
    Eppure… se servono alle banche i soldi improvvisamente spuntano fuori. E non pochi, ma i ben 14.810 miliardi di dollari: quanto si è stanziato, come interventi pubblici, negli Stati Uniti, Gran Bretagna e “zona Euro” dall’inizio della crisi. Per cosa? Per tamponare i bilanci delle grandi banche e le falle della crisi finanziaria (Fonte: Bank of England, nov. 2009).
    La domanda corretta, quindi, non è se ci sono i soldi, ma dove si trovano, e quindi chi paga!
    2. Chi paga?
    Rispondere a questa domanda ci porta lontano. Proviamo ad essere sintetici: da dove proviene la ricchezza? Oggi, come ieri, proviene dal nostro lavoro e dalla nostra cooperazione produttiva. Il frutto maledetto viene espropriato dalle grandi e piccole imprese, finisce nelle borse per far lievitare le le rendite finanziarie, viene rinchiuso nei recinti della proprietà intellettuale e nelle nuove forme del controllo sociale e del territorio gestito dagli apparati pubblici. Se è vero questo, i soldi vengono da chi sfrutta i nuovi e vecchi fattori della produzione a sua totale discrezione. I soldi quindi devono arrivare da chi gestisce/espropria la nostra ricchezza. Su questo siamo d’accordo.
    3. E concretamente da dove si prendono ’sti soldi?
    Il sistema fiscale si basa sulla tassazione dei fattori produttivi. Oggi si tassa ancora il lavoro dipendente (tanto), la proprietà delle macchine (troppo poco), il consumo (molto). Proprio come se fossimo ancora nel modello della grande fabbrica industriale. Invece, oggi l’accumulazione capitalistica poggia sullo sfruttamento della conoscenza e dello spazio.

    Se si tassassero le transazioni finanziarie? ovvero che si paghi qualcosa, anche solo lo 0,01% per ogni scambio di titoli?
    E se si tassassero i patrimoni immobiliari ovvero i miliardi ricavati da milioni di metri cubi di territorio cementificato?
    E se si tassassero i diritti di proprietà intellettuale, ovvero l’esproprio della conoscenza collettiva (invece di regalare 1.845 milioni di euro alla “big pharma” Novartis per vaccini inutilizzabili)?
    E se si tassasse l’uso delle forme contrattuali atipiche, ad esempio, introducendo l’Iva sull’intermediazione di lavoro effettuato dalle agenzie interinali, invece di far pagare esosi contributi sociali ai precarie ed alle precarie?
    E quante risorse si ricaverebbero introducendo all’interno del bilancio della regione, un unico bilancio di welfare, che raccoglie al proprio interno tutte le voci di entrate e di spesa, razonalizzando e universalizzando le politiche di welfare, evitando sovrapposizione, distorsioni, discrezionalità degli interventi, che oggi ricadono in diversi assessorati che non comunicano fra di loro? Un veloce calcolo, ci dice che potrebbe essere recuperato tra il 5 e il 10% dell’attuale bilancio della Lombardia…

    Quelli elencati sono tutti interventi possibili a partire da strumenti legislativi in parte già esistenti. Dalla rimodulazone dell’Ici, alla riforma dell’Irap, all’introduzione di nuove tasse sulla speculazione finanziaria, ecc…
    In altre parole, la questione non è di fattibilità, ma di volontà politica.
    Notate bene: non abbiamo nemmeno citato l’evasione fiscale…
    4 . Chi lavora? Se si riesce ad ottenere un reddito sganciato dal lavoro, chi fa poi i lavori di merda, che sono comunque necessari?
    Prima di tutto, avere un reddito sganciato dal lavoro aumenta la possibilità di scelta, anche la possibilità di rifiutare un lavoro di merda o meno. Notate bene, stiamo parlando di quella contrazione della scelta che è la precarietà! questo ha a che fare anche con la possibilità di agire conflitto. Noi non siamo contro il lavoro, noi siamo per il diritto alla scelta del lavoro, perché vogliamo essere uomini e donne liberi, in grado di poter autodeterminare il proprio destino.
    4bis. Si, d’accordo, è una bella prospettiva. Ma nell’immediato, rimane la stessa domanda: chi fa i lavori di merda, se non li fa nessuno?

    Approfondiamo, allora: cosa è un lavoro di merda? Uno di fattori che pesano, ben più della fatica, degli orari, del grado di manualità o intellettualità, è il valore della retribuzione. E’ sulla remunerazione del lavoro che si gioca principalmente il riconoscimento sociale e quindi l’accettabilità di quel lavoro. Se il lavoro in fonderia venisse pagato 6.000 euro netti al mese…
    Se, grazie alla garanzia di reddito, meno gente vuol fare quei lavori mal o sottopagati, più alienanti e faticosi, il capitale è obbligato a scegliere: aumentare i salari oppure adottare nuove tecnologie che eliminino quei lavori (come sempre si è verificato nella storia del capitalismo).
    Una nota interessante: nei primi anni del ‘900 alla richiesta di ridurre il tempo di lavoro a 8 ore giornaliere, si pose una domanda simile (chi produce?). Se l’orario del lavoro fosse stato ridotto, si disse, la produzione sarebbe calata e con essa la ricchezza, a danno degli stessi lavoratori. Sappiamo come è andata. Il conflitto sull’orario del lavoro ha in parte favorito quel grande processo di progresso tecnologico che va sotto il nome di taylorismo che ha consentito, pur in presenza di una riduzione costante dell’orario di lavoro di aumentare di 10 volte la capacità produttiva in poco più di 50 anni.
    5. Chi chiede continuità di reddito?
    In teoria dovrebbero chiederla tutte e tutti, se garanzia di reddito significa libertà di scelta e di azione. Nel concreto, la garanzia di continuità di reddito è soprattutto utile a chi più di altri vive il peso della subordinazione e della ricattabilità, soprattutto a livello individuale. I segmenti del mercato del lavoro oggi più ricattabili sono i migranti (e qui vi vanno coniugati i diritti di cittadinanza con i diritti del lavoro: la legge Bossi-Fini è prima di tutto una legge che regola il mercato del lavoro contro i migranti). Poi, in un contesto molto differente, i lavoratori della conoscenza e del terziario, solitamente senza alcuna tutela sindacale, spesso in presenza di elevata precarietà mascherata da adesione all’immaginario simbolico che caratterizza tali prestazioni lavorative.
    Quindi, tutte le realtà precarie e atipiche, per le quali l’accesso agli ammortizzatori sociali è precluso. Inoltre il reddito sganciato dal lavoro consente di remunerare quelle attività, spesso svolte da donne, che spesso vengono svolte gratuitamente (attività di cura). Una nota ulteriore: un reddito garantito può aumentare il livello di conflittualità. Infatti in molti casi chi oggi è in grado di lottare contro le ristrutturazioni produttive nell’area milanese e lombarda è un lavoratore industriale, e una ragione può essere nella accessibilità di una qualche forma di sussidio al reddito (cassa integrazione). Chi viene licenziato e non ha nulla, non può permettersi il “lusso” di lottare. Infatti molto rari sono stati i momenti di conflittualità espressi dai precari sia del settore privato che del settore pubblico. Ecco perché un politica sulla continuità del reddito può aumentare il livello di conflittualità generale, permettendone la diffusione su tutta la filiera produttiva, condicio …

    Commento by anonimo — 18 Gennaio 2010 @ 22:04

  7. Welfare Metropolitano FAQ

    Cerchiamo di rispondere alle domande più frequenti che sono state già oggetto di un acceso dibattito lo scorso incontro sul Welfare metropolitano…
    Ma dove si trovano i soldi per finanziare la continuità di reddito? Chi paga? E concretamente da dove diavolo si prendono ’sti soldi? Diritto al lavoro, diritto alla scelta del lavoro? Chi va poi in fonderia a lavorare? A chi gioverebbe? Chi gestisce l’erogazione?
     

    1. Ma ci sono i soldi?
    Ovvero l’annosa questione del finanziamento della cassa sociale del reddito.
    Ci dicono sempre che soldi non ce ne sono, e quindi occorre ridurre le pensioni, privatizzare i servizi sociali, tagliare scuola e sanità. In Italia, poi, con l’elevato debito pubblico che c’è, non c’è proprio altra possibilità. Figurarsi, quindi, finanziare un reddito sganciato dal lavoro.
    Eppure… se servono alle banche i soldi improvvisamente spuntano fuori. E non pochi, ma i ben 14.810 miliardi di dollari: quanto si è stanziato, come interventi pubblici, negli Stati Uniti, Gran Bretagna e “zona Euro” dall’inizio della crisi. Per cosa? Per tamponare i bilanci delle grandi banche e le falle della crisi finanziaria (Fonte: Bank of England, nov. 2009).
    La domanda corretta, quindi, non è se ci sono i soldi, ma dove si trovano, e quindi chi paga!
    2. Chi paga?
    Rispondere a questa domanda ci porta lontano. Proviamo ad essere sintetici: da dove proviene la ricchezza? Oggi, come ieri, proviene dal nostro lavoro e dalla nostra cooperazione produttiva. Il frutto maledetto viene espropriato dalle grandi e piccole imprese, finisce nelle borse per far lievitare le le rendite finanziarie, viene rinchiuso nei recinti della proprietà intellettuale e nelle nuove forme del controllo sociale e del territorio gestito dagli apparati pubblici. Se è vero questo, i soldi vengono da chi sfrutta i nuovi e vecchi fattori della produzione a sua totale discrezione. I soldi quindi devono arrivare da chi gestisce/espropria la nostra ricchezza. Su questo siamo d’accordo.
    3. E concretamente da dove si prendono ’sti soldi?
    Il sistema fiscale si basa sulla tassazione dei fattori produttivi. Oggi si tassa ancora il lavoro dipendente (tanto), la proprietà delle macchine (troppo poco), il consumo (molto). Proprio come se fossimo ancora nel modello della grande fabbrica industriale. Invece, oggi l’accumulazione capitalistica poggia sullo sfruttamento della conoscenza e dello spazio.

    Se si tassassero le transazioni finanziarie? ovvero che si paghi qualcosa, anche solo lo 0,01% per ogni scambio di titoli?
    E se si tassassero i patrimoni immobiliari ovvero i miliardi ricavati da milioni di metri cubi di territorio cementificato?
    E se si tassassero i diritti di proprietà intellettuale, ovvero l’esproprio della conoscenza collettiva (invece di regalare 1.845 milioni di euro alla “big pharma” Novartis per vaccini inutilizzabili)?
    E se si tassasse l’uso delle forme contrattuali atipiche, ad esempio, introducendo l’Iva sull’intermediazione di lavoro effettuato dalle agenzie interinali, invece di far pagare esosi contributi sociali ai precarie ed alle precarie?
    E quante risorse si ricaverebbero introducendo all’interno del bilancio della regione, un unico bilancio di welfare, che raccoglie al proprio interno tutte le voci di entrate e di spesa, razonalizzando e universalizzando le politiche di welfare, evitando sovrapposizione, distorsioni, discrezionalità degli interventi, che oggi ricadono in diversi assessorati che non comunicano fra di loro? Un veloce calcolo, ci dice che potrebbe essere recuperato tra il 5 e il 10% dell’attuale bilancio della Lombardia…

    Quelli elencati sono tutti interventi possibili a partire da strumenti legislativi in parte già esistenti. Dalla rimodulazone dell’Ici, alla riforma dell’Irap, all’introduzione di nuove tasse sulla speculazione finanziaria, ecc…
    In altre parole, la questione non è di fattibilità, ma di volontà politica.
    Notate bene: non abbiamo nemmeno citato l’evasione fiscale…
    4 . Chi lavora? Se si riesce ad ottenere un reddito sganciato dal lavoro, chi fa poi i lavori di merda, che sono comunque necessari?
    Prima di tutto, avere un reddito sganciato dal lavoro aumenta la possibilità di scelta, anche la possibilità di rifiutare un lavoro di merda o meno. Notate bene, stiamo parlando di quella contrazione della scelta che è la precarietà! questo ha a che fare anche con la possibilità di agire conflitto. Noi non siamo contro il lavoro, noi siamo per il diritto alla scelta del lavoro, perché vogliamo essere uomini e donne liberi, in grado di poter autodeterminare il proprio destino.
    4bis. Si, d’accordo, è una bella prospettiva. Ma nell’immediato, rimane la stessa domanda: chi fa i lavori di merda, se non li fa nessuno?

    Approfondiamo, allora: cosa è un lavoro di merda? Uno di fattori che pesano, ben più della fatica, degli orari, del grado di manualità o intellettualità, è il valore della retribuzione. E’ sulla remunerazione del lavoro che si gioca principalmente il riconoscimento sociale e quindi l’accettabilità di quel lavoro. Se il lavoro in fonderia venisse pagato 6.000 euro netti al mese…
    Se, grazie alla garanzia di reddito, meno gente vuol fare quei lavori mal o sottopagati, più alienanti e faticosi, il capitale è obbligato a scegliere: aumentare i salari oppure adottare nuove tecnologie che eliminino quei lavori (come sempre si è verificato nella storia del capitalismo).
    Una nota interessante: nei primi anni del ‘900 alla richiesta di ridurre il tempo di lavoro a 8 ore giornaliere, si pose una domanda simile (chi produce?). Se l’orario del lavoro fosse stato ridotto, si disse, la produzione sarebbe calata e con essa la ricchezza, a danno degli stessi lavoratori. Sappiamo come è andata. Il conflitto sull’orario del lavoro ha in parte favorito quel grande processo di progresso tecnologico che va sotto il nome di taylorismo che ha consentito, pur in presenza di una riduzione costante dell’orario di lavoro di aumentare di 10 volte la capacità produttiva in poco più di 50 anni.
    5. Chi chiede continuità di reddito?
    In teoria dovrebbero chiederla tutte e tutti, se garanzia di reddito significa libertà di scelta e di azione. Nel concreto, la garanzia di continuità di reddito è soprattutto utile a chi più di altri vive il peso della subordinazione e della ricattabilità, soprattutto a livello individuale. I segmenti del mercato del lavoro oggi più ricattabili sono i migranti (e qui vi vanno coniugati i diritti di cittadinanza con i diritti del lavoro: la legge Bossi-Fini è prima di tutto una legge che regola il mercato del lavoro contro i migranti). Poi, in un contesto molto differente, i lavoratori della conoscenza e del terziario, solitamente senza alcuna tutela sindacale, spesso in presenza di elevata precarietà mascherata da adesione all’immaginario simbolico che caratterizza tali prestazioni lavorative.
    Quindi, tutte le realtà precarie e atipiche, per le quali l’accesso agli ammortizzatori sociali è precluso. Inoltre il reddito sganciato dal lavoro consente di remunerare quelle attività, spesso svolte da donne, che spesso vengono svolte gratuitamente (attività di cura). Una nota ulteriore: un reddito garantito può aumentare il livello di conflittualità. Infatti in molti casi chi oggi è in grado di lottare contro le ristrutturazioni produttive nell’area milanese e lombarda è un lavoratore industriale, e una ragione può essere nella accessibilità di una qualche forma di sussidio al reddito (cassa integrazione). Chi viene licenziato e non ha nulla, non può permettersi il “lusso” di lottare. Infatti molto rari sono stati i momenti di conflittualità espressi dai precari sia del settore privato che del settore pubblico. Ecco perché un politica sulla continuità del reddito può aumentare il livello di conflittualità generale, permettendone la diffusione su tutta la filiera produttiva, condicio …

    Commento by anonimo — 18 Gennaio 2010 @ 22:04

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    welfare metropolitano: secondo appuntamento-lunedì 18 gennaio presso il nuovo “San Precario Space” « Il Sottoscala

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    welfare metropolitano: secondo appuntamento-lunedì 18 gennaio presso il nuovo “San Precario Space” « Il Sottoscala

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