BOLOGNA – 29 OTTOBRE – "Escludere il Teatro alla Scala dal sistema di contrattazione nazionale. Un po’ come tenere la Fiat fuori dal contratto dei metalmeccanici". E’ la tesi di Marco Tutino (foto, con Sergio Cofferati), sovrintendente del Comunale di Bologna e presidente dell’Anfols, riportata oggi dal quotidiano Il Giorno. E la Scala non sembra tirarsi indietro.
Tutino parla del teatro milanese come di "un elemento disomogeneo" che rende "malato tutto il sistema e impedisce contrattazioni sane".
"Tutto il sistema è ‘scalocentrico’ – continua Tutino – a partire dalla legge che ha trasformato gli enti lirici in fondazioni, fatta su misura per la Scala, ma che ha penalizzato tutti gli altri". E precisa: "E’ penalizzante per la Scala e per gli altri dover essere compresi in un insieme di regole che la e ci costringono a un confronto impietoso, che ogni volta nel peggiore dei casi ci trascina verso una problematica che noi non possiamo affrontare. Nel migliore dei casi ci costringe invece ad avere delle logiche di sistema penalizzanti".
Questa, secondo Tutino, una delle ragioni per cui non si riesce a firmare il rinnovo del contratto di lavoro. La soluzione, dunque, può essere quella di escludere la Scala dalla contrattazione nazionale. "Credo sia un bene per tutti fare questo passo – conclude Tutino -, un bene per i lavoratori ma anche per il sistema delle fondazioni italiane che deve riformarsi. Ed è evidente che questa riforma passa anche attraverso questo tipo di operazione".
E la prima risposta dal teatro milanese è positiva: "In realtà questa è una cosa che la Scala dice da tempo – ricorda il sovrintendente Lissner – nel senso che siamo l’unico teatro in cui in qualche modo funziona l’invito alla privatizzazione".
Se i pochi fondi per lo spettacolo non bastano mai
Tra un atto e l’altro delle opere serie italiane c’era una volta l’intermezzo buffo. Qui, tra la serissima rivendicazione sindacale e la serissima prima della Scala del 7 dicembre, tra le cause in corso dei precari e la furia erotica e liberatoria di Carmen, c’è una scenetta che, ripetendosi, ogni anno, ha qualcosa di comico
Milano, 28 ottobre 2009 – Tra un atto e l’altro delle opere serie italiane c’era una volta l’intermezzo buffo. Qui, tra la serissima rivendicazione sindacale e la serissima prima della Scala del 7 dicembre, tra le cause in corso dei precari e la furia erotica e liberatoria di Carmen, c’è una scenetta che, ripetendosi, ogni anno, ha qualcosa di comico. O tragicomico, se preferite.
L’arte è pronta, le pellicce anche, però forse non si va in scena. Invece no, poi si va in scena. Si firma, si promette, si rimanda, si ripromette. Il fatto è che i soldi sono sempre quelli, non di un vizioso e avaro Pantalone, ma di un Ministero che fa i conti con le scelte economiche complessive del governo. Come pensiamo la cultura? Come l’arte, il cinema, il teatro, il costosissimo Teatro d’Opera? La coperta non è corta, se dividiamo i soldi per settori, che in fondo è la cosa più onesta per capire. E’ un asciugamano.
Qualche giorno fa, mentre i delegati sindacali erano a Roma a chiedere il rispetto degli accordi del 2008, all’Auditorium della Festa del Cinema hanno fatto a baionettate l’attore Luca Barbareschi e lo sceneggiatore Stefano Rulli, il delegato di governo e l’associazione Centoautori. Ciascuno si attribuiva il merito di aver costretto il ministro a sborsare i 60 milioni per il Fus. Rulli: "Merito delle nostre continue manifestazioni". Barbareschi: "Merito del mio pomeriggio di litigio con Tremonti". E i soldi non bastano. Non è chiaro chi "gode" in questo caso.
Silvio Danese
Il Giorno